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Ricordo di Cesare

Non si può parlare di Cesare Fiasconaro, il grande Cesare, senza avere chiaro cosa sia stato il Veglione, anzi, il Veglione delle Fontanelle, dove martedì sera entrare era un premio prima ancora che un’impresa, dove il solo esserci significava aver guadagnato un pezzetto di considerazione in più, dove far parte della macchina organizzativa e rappresentativa era quasi uno status symbol  perché questo implicava indissolubilmente il possesso di riconosciute capacità. Quel Veglione era una parte della cultura, della società viva e della voglia di cercare nuovi stimoli di Castelbuono; e di questo contesto Cesare era un simbolo. E’ vero, il Veglione c’era prima di lui ma da quando ci fu lui non poté più essere pensato senza; e oggi che lui non c’è più il ricordo di quel Veglione si fa ancora più struggente, anche per la sua assenza.

Così per capire appieno il personaggio è necessario sintetizzare brevemente la cronaca dei contributi di Cesare al Veglione di Carnevale, avvisando però che quello che è stato, anzi meglio, è Cesare, non è tanto la somma delle cose che ha fatto quanto il senso che ne ha dato e quello che ci ha regalato facendole.

Cesare è già, sul finire degli anni ’60, il conduttore del Veglione che, per motivi poco chiari, in quegli anni non venne organizzato nella sua sede naturale: se ne fece solo qualche edizione in tono minore all’Astra.
Nel 1972, con la ripresa del Veglione a Le Fontanelle, Cesare è già “Il Presentatore”: dal palco la fa da padrone con battute, lazzi e frizzi. Inoltre si concede l’interpretazione di tre maschere con altri due pezzi da novanta: Sasà Genchi e Peppe Spallino. La prima si apriva con la canzone Buonasera signorina, di Buscaglione (“Buonasera miei signori, buonasera …siam tornati Peppe, Cesare e Sasà”), e si chiudeva con Come pioveva di Modugno dove si parlava del fatto che il Veglione per diversi anni non era stato organizzato: “...e purtroppo da quel giorno / non ci siam rivisti più / ma la colpa non fu nostra, ma di quel Matassa fu. / Vi abbiamo dato nostalgiche ore / ma siam tornati con soddisfazione / ci proponiamo di continuare / dopodomani proprio a quest’ora”.
Così anche nel 1973, l’anno del pienone, con lui dal palco che quasi implorava la gente ammassata di scendere dalla galleria perché si temeva un crollo; e ancora le maschere con Sasà e con i Figli di Nessuno: La maschera della luna, Tabarè ’73, quella dell’aereo che parte dalla balconata e atterra sul palco.
Arriviamo al 1976 quando Cesare, Cosimo con la sua storica compagnia e Sasà, sono insieme sul palco per una maschera improvvisata avente per soggetto il manicomio.
Il 1978 è l’ultimo anno del Veglione organizzato dalla Pro-Loco e anche l’ultimo di Cesare presentatore. Quell’anno è la voce narrante nel revival dei Figli di Nessuno ma anche il prete nella maschera del battesimo del bambino (Angelo Obole) con Cosimo e Minà.
Dal 1985 al 1988 è protagonista indiscusso di diverse maschere con gli Amici di Bertoldo rappresentate in piazza, a Carnevale, ma anche in occasione della festa di S. Giovanni.
Nel 1999 Cesare, assieme ai Niputi dâ Zza Cicca e al Gruppo 2001, dà il suo fondamentale contributo per salvare e rilanciare quel Veglione che ancora oggi resiste a Carnevale. Cesare, con gli ex Figli di Nessuno Peppinello Mazzola e Mario Ignatti, rappresenta una maschera nella quale da brave “chiocce” raccontano ai loro “pulcini” come e cosa erano le loro maschere negli anni d’oro del Veglione.
Nel 2001 firma la petizione del gruppo 2001 per la riapertura delle Fontanelle.
Nel 2004 sale un’ultima volta sul palco per ricevere, come tutte le glorie del Veglione, una targa di riconoscimento. In quell’occasione, da persona assolutamente realista e disincantata, mostra grande scetticismo per i buoni propositi manifestati dall’amministrazione comunale che, per rendere più stabile la manifestazione, aveva insediato un comitato. Con l’ironico sorriso che tutti conosciamo disse press’a poco: “In barba ad ogni comitato e ad ogni buon proposito, del Carnevale ci si dimentica appena si spengono le luci del Veglione per riparlarne poi quindici giorni prima del prossimo Carnevale. Anche stavolta sarà così”. E ad un attuale uomo politico di primissimo piano di Castelbuono, che in nostra presenza si adombrò per questa previsione quasi fosse un attacco personale, assicurammo che le cose sarebbero andate esattamente come previsto da Cesare, risultando poi facili profeti.
Ma se questa sintesi inquadra le attività di Cesare dentro il Veglione, più importante è cercare di far capire quello che lui rappresenta per il Veglione e per il Carnevale di Castelbuono in generale.
Se l’immagine di Cesare nella nostra memoria è quella di un viso amico, sorridente, di un sorriso che era allo stesso tempo ironico, ammiccante, di approvazione, di incoraggiamento, mai di derisione e sempre specchio della sua anima, ciò che ne faceva un personaggio straordinario era il possesso di due doni rarissimi, che avrebbero potuto fare di lui il dominatore di qualsiasi altra scena, se solo lo avesse voluto.
Il primo era che le sue parole, pur essendo assolutamente sincere, sintomo di una personalità incapace di scendere a compromessi, risultavano sempre gradite: che scandissero l’incedere della serata del Veglione, che raccontassero o commentassero un qualsiasi episodio, o semplicemente fossero la risposta a un saluto, quelle parole erano, indiscutibilmente ed esattamente, quelle che si volevano sentire.
Il secondo, last but not least, era la capacità delle sue parole di trasmettere allegria: non si può dire se era per la straordinaria musicalità della sua voce, per l’innata capacità di cogliere il lato goliardico di ogni evento, per la sua spiccata ironia ed auto-ironia o per qualche altra sconosciuta alchimia che solo lui sapeva catalizzare; fatto è che quelle parole facevano sorridere l’anima. Giova ricordare un aneddoto dell’inizio del suo periodo al Veglione, ad esemplificare la sua capacità di far sorridere anche con l’auto-ironia: invitando il pubblico a lanciarsi nell’arena del ballo alle Fontanelle, disse con quella naturalezza che ogni sua battuta sottendeva: “Tutti possono ballare, anche le mie sorelle… ci fosse almeno uno disposto ad invitarle”.
E noi, allora ragazzini affascinati dal Veglione, che guardavamo i grandi con sterminata ammirazione, eravamo come soggiogati dal suo essere il Veglione: anzi, soggiogati non è il termine esatto perché, sebbene esprima perfettamente l’ascendente che Cesare aveva su tutta la gente del Veglione, potrebbe anche far sospettare un potere da lui usurpato e dagli altri solo subito. Invece il suo ascendente era quanto di più democratico potesse esistere: era la gente stessa che glielo tributava e lui, con eleganza, misura e intelligenza, lo amministrava a vantaggio di tutti, risultando contemporaneamente re indiscusso di quei fasti e suddito fedele di tutti, senza contraddizioni e con quella semplicità propria dei grandi in qualsiasi campo.
Ecco perché quando disse di noi, dopo le prime rappresentazioni al Veglione, qualcosa che assomigliava ad un’approvazione, sentimmo brividi attraversarci da capo a piedi: era una conferma che stavamo entrando a far parte di quel mondo e, cosa più importante, quel mondo poteva far parte di noi. Cogliere poi, con il passare degli anni, che le sue parole cominciavano a riconoscerci esplicitamente come parte di quella gloria (anche se per un suo vezzo, probabilmente per avvicinarci a due grandi simboli del Veglione dell’epoca, ebbe più volte a chiamarci scherzosamente “I Figli di … Sasà”) è stato per noi motivo di grande gioia.
La nostra sintonia con Cesare si è manifestata in tanti frangenti, ma fu completamente evidente nel corso del veglione 2001 quando, sebbene si fosse volutamente ritirato dal palcoscenico, avvertì il bisogno di salire sul palco per elogiare la nostra maschera Onomastico o compleanno in termini così entusiastici che ancora oggi, a pensarci, “nn’arrìzzanu i carni”.
Probabilmente fu lì che capimmo appieno che ci ispirava lo stesso “Sogno”: saper restare e tornare bambini pur crescendo e conservare la gioia di cercare il sorriso, l’ironia e l’allegria anche dove è difficile che ci sia; trasformare il Carnevale, con la sua spontanea dote di disponibilità all’allegria e all’ironia, in una festa di gioia che, per qualche giorno, ci fa tornare indietro nel tempo, seppellire i guai quotidiani e trovare impulso per il resto dell’anno.
Che Cesare abbia saputo regalare magistralmente a tutti questo “Sogno” lo abbiamo capito noi ma, assieme a noi, anche i suoi cari, tanto da deporre dove Cesare riposa una copia di quella canzone che questo ”Sogno” simboleggia: una canzone che, sulle note di “La vita è bella”, sussurra al mondo il bisogno di tornare e restare bambini regalando sorrisi, un po’ sindrome di Peter Pan e un po’ voglia di cambiare il mondo. Cosa, se non questo, è Cesare per tutti?